sabato 11 ottobre 2014


Compagni:
Buonanotte, pomeriggio, giorno, ovunque sia la tua posizione geografica, il tuo tempo, la tua maniera.
Buone prime ore del mattino. Vorrei chiedere ai miei compagni di la Sexta che vivono da altre parti, specialmente ai media liberi compagni, la vostra pazienza, tolleranza e comprensione per quello che sto per dire, perché queste saranno le mie ultime parole al pubblico prima di smettere di esistere. Mi rivolgo a voi e a tutti coloro che tramite voi ci ascoltano e ci guardano. Forse all’inizio, o nel mentre di queste parole, andrà crescendo nei vostri cuori la sensazione che qualcosa sia fuori posto, che qualcosa non quadri, come se mancassero diversi pezzi per trovare il senso di un rompicapo che vi si pone di fronte agli occhi. Come se già di per sé mancasse quello che manca. Forse dopo, dopo giorni, settimane, mesi, anni, decenni, dopo potrebbe essere compreso ciò che ora diremo. I miei compagni e compagne dell’EZLN a tutti i suoi livelli non mi preoccupano, perché di per sé questa qua è la nostra maniera: camminare, lottare, sapendo sempre che manca ciò che manca. E come se non bastasse, che non si offenda nessuno, l’intelligenza dei compagni zapatisti è molto al di sopra della mediocrità. Peraltro, ci rende soddisfatti e orgogliosi il fatto che sia davanti ai compagni, tanto dell’EZLN come di la Sexta, che diamo la notizia di questa decisione.
E quanto sarà bello per i media liberi, alternativi, indipendenti, che questo arcipelago di dolori, rabbia e dignitosa lotta che si chiam “la Sexta” verrà a conoscenza di ciò che io vi dirò, dove voglio che si trovino. Se a qualcun altro interessasse sapere cosa accadde in questo giorno, dovrà rivolgersi ai media liberi per scoprirlo. Bene dunque. Benvenute e benvenuti nella realtà zapatista.

I. Una decisione difficile.
Quando irrompemmo nel 1994 con sangue e fuoco, non iniziava la guerra per noi, noi gli zapatisti. La guerra di cui parlo, con la morte e distruzione, le privazioni e l’umiliazione, lo sfruttamento e il silenzio imposto al vinto, già la subivamo da secoli. Quello che inizia per noi nel 1994 e uno dei molti momenti di quelli che stanno sotto contro quelli che stanno sopra, contro il suo mondo.
Quella guerra di resistenza che giorno dopo giorno si imbatte nelle vie di ogni angolo dei cinque continenti, nei suoi campi e nelle sue montagne. Era ed è la nostra, come quella di molti e di molte che stanno sotto, una guerra per l’umiltà e contro il neoliberismo.
Contro la morte, noi domandiamo vita.
Contro il silenzio, esigiamo la parola e il rispetto.
Contro la dimenticanza, la memoria.
Contro l’umiliazione e il disprezzo, la dignità.
Contro l’oppressione, la ribellione.
Contro la schiavitù, la libertà.
Contro l’imposizione, la democrazia.
Contro il crimine, la giustizia.
Chi con un minimo di umanità nelle vene potrebbe mettere in discussione queste richieste?
E molti queste richieste le ascoltarono.
La guerra che abbiamo sollevato ci ha dato il privilegio di arrivare alle orecchie e ai cuori attenti e generosi, a noi geograficamente vicini, o lontani. Mancava quello che mancava. Manca quello che manca, però abbiamo ottenuto lo sguardo dell’altro, le sue orecchie, il suo cuore. Dunque ci vedevamo di fronte alla necessità di rispondere a una domanda decisiva: “Cosa verrà ora?” Nel tetro calcolo della vigilia non c’era la possibilità di prevederlo. E così questa domanda ci condusse verso altri quesiti: Preparare i successori nella rotta verso la morte? Formare più soldati, e migliori? Cambiare gli impegni e migliorare la nostra malconcia macchina da guerra? Simulare dialoghi e disposizioni per la pace, però continuare a preparare nuovi golpe? Uccidere o morire come unico destino? O dovevamo ricostruire il cammino della vita, quello che fu rotto e continua ad essere rotto dall’alto? Il cammino non solo dei popoli autoctoni, ma anche di lavoratori, studenti, maestri, giovani, contadini, oltre a tutte le differenze che si celebrano in alto, e che qua sotto si perseguitano e si castigano. Dovevamo incidere il nostro sangue nel cammino che altri compiono verso il Potere, o rivolgere il cuore e lo sguardo a ciò che siamo, e a coloro che sono ciò che siamo, vale a dire, i popoli autoctoni, guardiani della terra e della memoria? Nessuno ascoltò allora, però già dai primi balbettii che furono le nostre parole avvertivamo che il nostro dilemma non era negoziare o combattere, bensì vivere, o morire. Chi avvertì già allora che quel primo dilemma non era individuale, forse avrà compreso meglio ciò che è accaduto alla realtà zapatista negli ultimi 20 anni. Però io vi ho detto che ci siamo imbattuti in quella domanda e in quel dilemma. E abbiamo scelto.
E invece che dedicarci a forme di guerriglia, soldati e squadroni, preparammo promotori di educazione, di salute, e cominciarono ad alzarsi le basi di quell’autonomia che oggi meraviglia il mondo. Invece che costruire caserme, migliorare il nostro equipaggiamento, alzare muri e trincee, si sono erette scuole, si costruirono ospedali e centri di salute, migliorammo le nostre condizioni di vita. Invece che lottare per occupare un luogo nel Partenone delle morti individualizzate di quelli che stanno sotto, scegliemmo di costruire la vita. Questo al centro della guerra, che non perché sorda è meno letale.
Perché, compagni, una cosa è gridare “non siete soli” e un’altra è affrontare solo con il proprio corpo una colonna di blindati di truppe federali, come accadde nella zona degli Altos de Chiapas, e vediamo se la fortuna ci assiste e qualcuno se ne accorge, e vediamo se c’è un poco più di fortuna e chi si accorge si indigna, e un altro po’ di fortuna ancora e colui che si indigna fa qualcosa. Nel frattempo, i tankette erano frenati dalle donne zapatiste, e mancando il parcheggio fu con insulti alle madri e pietre che il serpente di acciaio dovette arretrare. E nella zona nord di Chiapas, si soffre la nascita e lo sviluppo delle guardie bianche, riciclate allora come paramilitari; nella zona Tzotz Choj le aggressioni continue da parte di organizzazioni di contadini che di “indipendenza” a volte non hanno nemmeno il nome; e nella zona della Selva Tzeltal la combinazione di paramilitari e contractor.
Una cosa è gridare “tutti siamo Marcos” o “non tutti siamo Marcos”, secondo il caso o cosa, altra cosa è la persecuzione con tutti i meccanismi di guerra, l’invasione di villaggi, i rastrellamenti nelle montagne, l’uso di cani addestrati, le pale degli elicotteri di artiglieria che scompigliavano le fronde delle ceibe, il “vivo o morto” che nacque nei primi giorni di gennaio del 1994 e raggiunse il suo livello più isterico nel 1995 e nei 6 anni dopo, e che questa zona di Selva Fronteriza subì dal 1995 e alla quale dopo si somma la stessa sequenza di aggressioni di organizzazioni contadine, uso di paramilitari, militarizzazione, istigazioni. Se c’è qualche mito in tutto ciò non è il passamontagna, ma la menzogna che ripetono fin da quegli anni, ripresa anche da persone con studi autorevoli, che la guerra con gli zapatisti durò solo 12 giorni.
Non parlerò dettagliatamente dei miei ricordi. Qualcuno con un minimo di spirito critico e serietà può ricostruire la storia, e sommare e sottrarre per ricavarne il risultato, e dire se furono più i reporter che la polizia e i soldati; se furono più le adulazioni che le minacce e gli insulti; se il prezzo che si era posto era per vedere il passamontagna o per “catturarlo vivo o morto”. In quelle condizioni, alcune volte solo con le nostre forze e altre con l’appoggio generoso e incondizionato della gente buona di tutto il mondo, proseguivamo nella costruzione, ancora non terminata, certo, però già definita in ciò che siamo. Non è quindi solo una frase, sfortunata o fortunata, a seconda che la si veda dal basso o dall’alto, “qui siamo i morti di sempre, che muoiono ancora, però ora per vivere”. È la verità.
E quasi 20 anni dopo…
Il 21 dicembre del 2012, quando la politica e l’esoterismo coincidevano, come altre volte, nel predicare catastrofi che sono sempre solo per quelli di sempre, quelli che stanno sotto, ripetemmo il colpo di mano del 1 gennaio del ’94 e, senza sparare un solo colpo, senza armi, con solo il nostro silenzio, prostrammo di nuovo la superbia delle città culla e nido del razzismo e del disprezzo. Se il primo di gennaio del 1994 migliaia di uomini e donne senza voce attaccarono e sottomisero le guarnigioni che proteggevano le città, il 21 di dicembre del 2012 furono decine di migliaia le persone che presero senza parole gli edifici da dove si celebrava la nostra scomparsa. Il solo fatto inappellabile che l’EZLN non solo non si era indebolito, figuriamoci scomparso, ma addirittura era cresciuto quantitativamente e qualitativamente sarebbe bastato perché qualsiasi mente mediamente intelligente si accorgesse che, in 20 anni, qualcosa era cambiato all’interno dell’EZLN e delle comunità.
Magari più di qualcuno può pensare che abbiamo sbagliato a scegliere, che un esercito non può né deve impegnarsi per la pace. Per molte ragioni, certo, però la cosa principale era ed è che continuando per quella strada avremmo finito per scomparire davvero.
Forse è certo. O forse ci sbagliammo a scegliere di coltivare la vita al posto di adorare la morte. Però non scegliemmo ascoltando quelli di fuori. Non a coloro che sempre domandano ed esigono la lotta e la lotta alla morte, mentre i morti li mettono gli altri. Scegliemmo guardandoci e ascoltandoci, scegliemmo di essere il Votán collettivo che siamo.
Scegliemmo la ribellione, vale a dire, la vita
Ciò non vuole dire che non sapevamo che la guerra di quelli che stanno sopra pianificava e pianifica di imporre di nuovo il suo dominio sopra di noi. Sapevamo e sappiamo che prima o poi dovremo difendere ciò che siamo e come siamo. Sapevamo e sappiamo che continuerà ad esservi la morte perché ci sia la vita. Sapevamo e sappiamo che per vivere, moriamo.

II. Un fallimento?
Dicono ogni tanto che non abbiamo ottenuto nulla.
Non smette di sorprendere che si maneggi con tanta disinvoltura questa posizione. Pensano che i figli e le figlie dei comandanti e delle comandanti dovrebbero poter godere di viaggi all’estero, di studi in scuole private e poi di posti autorevoli in imprese o nella politica Che al posto di lavorare la terra per prendere da essa con sudore e fatica i suoi prodotti, dovrebbero mostrarsi nei social network e divertendosi nelle discoteche, esibendo il lusso. Magari i subcomandanti dovrebbero procreare e dare in eredità ai loro discendenti l’incarico, le prebende, i tempietti, come fanno i politici. Magari dovevamo, come i dirigenti della CIOAC-H e di altre organizzazioni contadine, ricevere privilegi e paghe in progetti e appoggi, stare con la maggioranza e dare alle basi solo qualche briciola, a patto che compiano gli ordini criminali che arrivano dall’alto.
Però è certo, non abbiamo ottenuto nulla di questo per noi.
Difficile da credere che 20 anni dopo quel “nulla per noi” non sarebbe risultato solo uno slogan, una buona frase per striscioni e canzoni, bensì una realtà, La Realidad.
Se essere coerenti è un fallimento, allora l’incoerenza è il cammino per il successo, la rotta verso il Potere. Però noi non vogliamo prendere quella strada. Non ci interessa.
Con questa base preferiamo fallire piuttosto che trionfare.

III. Il cambio.
In questi 20 anni c’è stato un cambio d’incarichi multiplo e complesso nell’EZLN. Alcuni hanno notato solo quello evidente, ossia quello generazionale. Ora stanno facendo la lotta e dirigendo la resistenza coloro che erano piccoli o non erano ancora nati all’inizio della sollevazione. Però alcuni studiosi non si sono accorti di altri cambiamenti. Quello di classe: dall’originaria classe medio-istruita, a quella indigena contadina. Quello di razza: dalla direzione meticcia alla direzione nettamente indigena.
E la cosa più importante: l’evoluzione del pensiero: dall’avanguardismo rivoluzionario al comandare obbedendo; dalla presa del Potere dall’alto alla costruzione del potere dal basso; dalla politica professionale alla politica contadina; dai leader ai popoli; dalla marginalizzazione di genere alla partecipazione diretta delle donne; dal ridere dell’altro, alla celebrazione della differenza.
Non mi dilungherò oltre su queste cose, perché è stato precisamente il corso “La libertà secondo gli zapatisti” l’opportunità di constatare se in un territorio organizzato vale più il personaggio che la comunità. Personalmente non riesco a capire come gente pensante che afferma che la storia la fanno i Popoli, si possa spaventare tanto davanti all’esistenza di un governo del popolo dove non compaiono gli specialisti dell’”essere” governo. Perché li riempie di terrore il fatto che siano i popoli a comandare, quelli che dirigano i loro propri passi? Perché muovono la testa con disapprovazione di fronte al comandare obbedendo?
Il culto verso l’individualismo incontra nel culto dell’avanguardismo il suo estremo più fanatico. Ed è stato questo precisamente, il fatto che gli indigeni comandino e che un indigeno sia il portavoce e il capo, quello che li atterrisce, che li fa scostare, e alla fine vanno via per continuare a cercare qualcuno che definisca le avanguardie, capi e leader. Perché c’è razzismo anche nella sinistra, soprattutto quella che pretende di essere rivoluzionaria.
L’Ezetaelleenne non è fatto di queste cose. Per questo non tutti possono essere zapatisti.

IV. Un ologramma che si evolve e con garbo. Quello che non sarà
Prima dell’alba del 1994 ho passato 10 anni in queste montagne. Ho conosciuto e trattato personalmente con alcune persone dopo la cui morte un po’ siamo morti anche noi. Conosco e parlo da allora con altri e altre che oggi sono qui come noi.
Molte mattine mi trovavo a cercare di digerire le storie che mi raccontavano, i mondi che disegnavano con i silenzi, le mani, gli sguardi, la loro insistenza nel sottolineare qualcosa più in là.
È un sogno quel mondo là, tanto lontano, tanto alieno?
A volte pensavo che si era andati troppo oltre, che le parole che ci guidavano e ci guidano venivano da tempi per i quali non c’era alcun calendario, perduti come se stessero in luoghi geografici imprecisi: sempre il Sud degno onnipresente in tutti i punti cardinali.
Dopo seppi che non mi parlavano di un mondo inesatto e, quindi, improbabile.
Quel mondo già andava al suo ritmo.
Voi, non lo avete visto già allora? Non lo vedete?
Non abbiamo ingannato nessuno di quelli che stanno sotto. Non nascondiamo a nessuno che siamo un esercito, con la sua struttura piramidale, il suo centro di comando, le sue decisioni dall’alto verso il basso. Non per ingraziarci i libertari, o per moda, neghiamo quello che siamo.
Però tutti possono constatare ora se il nostro è un esercito che esclude qualcuno o che si impone. E devo dire una cosa, per la quale ho già chiesto l’autorizzazione del compagno Subcomandante Insurgente Moisés: nulla di ciò che abbiamo fatto, nel bene e nel male, sarebbe stato possibile se un esercito armato, quello zapatista di liberazione nazionale, non si fosse sollevato contro il malgoverno esercitando il diritto alla violenza legittima. La violenza di quelli che stanno sotto verso quelli che stanno sopra.
Siamo guerrieri e come tali sappiamo qual è il nostro ruolo e il nostro momento.
Nell’alba del primo giorno del primo mese dell’anno 1994, un esercito di giganti, vale a dire, di indigeni ribelli, scese nelle città per scuotere il mondo col suo passaggio. Appena pochi giorni dopo, con il sangue dei nostri caduti ancora fresco per le strade delle città, ci siamo resi conto che coloro che venivano da fuori non ci vedevano. Abituati a guardare dall’alto gli indigeni, non alzavano lo sguardo per osservarci. Abituati a vederci umiliati, il loro cuore non comprendeva la nostra dignitosa ribellione. Il loro sguardo si era fermato sull’unico mulatto che videro col passamontagna, vale a dire, che non guardavano. Allora i nostri capi dissero: “Loro vedono solo ciò che è piccolo, rendiamo qualcuno tanto piccolo, cosicché lo vedano e tramite lui possano scorgere noi”.
Cominciò così una “complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, una maliziosa mossa del nostro essere cuori indigeni; la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione.”
Cominciò allora la costruzione del personaggio chiamato “Marcos”.
Chiedo a voi che mi seguiate in questo ragionamento. Supponiamo che sia possibile un’altra forma con la quale neutralizzare un criminale. Per esempio, creando per lui la sua arma suicida, fargli credere che sia efficace, convincerlo a costruire, sulla base di questa efficacia, tutto il suo piano, cosicché in quel momento nel quale egli si prepara a sparare, l’“arma” ritorni ad essere ciò che è sempre stata: un’illusione. L’intero sistema, ma soprattutto i suoi mezzi di comunicazione, giocano a costruire fama per poi distruggerla, se non si piega ai suoi disegni. Il suo potere risiedeva (ora non più, rimpiazzato in questo dai social network) nel decidere cosa e chi esisteva in quel momento nel quale sceglievano cosa nominavano e cosa mettevano a tacere. Alla fine, non fate troppo caso a me, come si è dimostrato in questi 20 anni, io non so niente di mezzi di comunicazione di massa. Il fatto è che il Subcomandante Marcos passò dall’essere un portavoce ad essere un elemento di distrazione.
Se il cammino della guerra, ossia, della morte, ci aveva preso 10 anni, quello della vita prese più tempo e richiese più sforzi, per non parlare del sangue. Perché, sebbene possiate non crederlo, è più facile morire che vivere. Avevamo bisogno di tempo per essere e per trovare chi sapesse vederci come quelli che siamo. Avevamo bisogno di tempo per trovare qualcuno che non ci vedesse dall’alto verso il basso, né dal basso verso l’alto, e che invece ci guardasse negli occhi, che ci vedesse con sguardo da compagni.
Stavo dicendo che allora cominciò la costruzione del personaggio.
Marcos un giorno aveva gli occhi azzurri, un altro verdi, o caffè, o miele, o neri, tutto dipendeva da chi faceva l’intervista e scattava la foto. Così fu riserva nella squadra di calcio professionale, impiegato di aziende immobiliari, autista, filosofo, regista, e gli eccetera che potete incontrare nei media di professione di quei giorni e in diversi luoghi geografici. C’era un Marcos per tutte le occasioni, vale a dire, per ogni intervista. E non fu facile, credetemi, non c’era allora wikipedia e se veniva lo Stato spagnolo dovevo capire cosa fosse il “corte inglés” [NdT: la più importante catena di grandi magazzini spagnoli]; ad esempio, era un corte de traje [NdT: smoking] tipico dell’Inghilterra, una tienda de abarrotes [NdT: drogheria], o una tienda departamental [NdT: grandi magazzini].
Se mi permettete di descrivere Marcos il personaggio, allora, io direi senza dubbi che era una facciata, un travestimento. Diciamo che, per farmi capire, Marcos era un Media Non Libero (occhio, che non è la stessa cosa di un media ufficiale).
Nella costruzione e nel mantenimento del personaggio ci furono alcuni errori. “Sbagliare è umano”, disse il fabbro.
Nel corso del primo anno esaurimmo, come si dice, il repertorio di “Marcos” possibili. Così agli inizi del 1995 eravamo demoralizzati e il processo dei villaggi era ancora ai suoi primi passi. Così nel 1995 già non sapevamo come comportarci. Però, è allora che Zedillo “scopre” Marcos con lo stesso metodo scientifico attraverso il quale si trova l’ossatura, cioè, con la delazione esoterica.
La storia del tampiqueño [NdT: dalla città di Tampico] ci ha dato un po’ di respiro, sebbene la frode successiva della Paca de Lozano ci fece temere che i media avrebbero messo in dubbio lo “smascheramento” di Marcos e che potessero scoprire che era una menzogna in più. Fortunatamente non fu così. Come quella volta, i media continuarono a portare avanti altre storie costruite ad arte.
Un po’ di tempo dopo il tampiqueño arrivò a queste terre. Insieme al Subcomandante Insurgente Moisés, abbiamo parlato con lui. Gli abbiamo offerto allora di tenere una conferenza congiunta, così che egli potesse liberarsi della persecuzione, dato che era evidente che lui e Marcos non erano la stessa persona. Non volle. Venne a vivere qua. Uscì alcune volte e il suo volto si può incontrare nelle fotografie dei funerali dei suoi genitori. Se volete potete intervistarlo. Ora vive in una comunità in…. Ah, non vuole che si sappia dove vive. Non diremo nulla di più, cosicché, se egli lo desidera, potrà un giorno raccontarvi la storia di quello che ha vissuto dal 9 di febbraio del 1995. Da parte nostra non ci rimane che ringraziarlo per averci passato dati che ogni tanto usiamo per alimentare la “certezza” che il Subcomandante Marcos non sia ciò che in realtà è, cioè un costume o un ologramma, bensì un professore universitario, originario dell’allora Tamaulipas.
Nel frattempo continuiamo a cercare, cercarle, cercarli, coloro che ora sono qui, e coloro che sono qua che però non ci sono. Lanciammo iniziative per trovare l’altro, l’altra, gli altri compagni. Diverse iniziative, che cercavano di incontrare lo sguardo e l’udito che necessitiamo e meritiamo. Nel frattempo, seguivo l’avanzare dei villaggi e i cambiamenti dei quali si è parlato molto o poco, che però si possono constatare direttamente, senza intermediari. Nel cercare altro, di quando in quando abbiamo fallito.
Chi incontravamo voleva comandare oppure essere comandato. C’era chi si avvicinava e lo faceva nell’affanno di usarci, o per osservare da dietro, sia con nostalgia antropologica, sia con nostalgia militante.
Così per alcuni eravamo comunisti, per altri trotzkisti, anarchici, maoisti, per altri millenaristi, e qui la smetto con i vari “isti”, perché possiate porre ciò che sia di vostra conoscenza.
Così fu fino alla Sexta Declaración della Selva Lacandona, la più audace e più zapatista delle iniziative che abbiamo lanciato fino ad ora. Con la Sexta alla fine abbiamo incontrato coloro che ci guardano negli occhi e che ci salutano e abbracciano, e così ci si saluta e abbraccia. Con la Sexta alla fine vi abbiamo incontrato. Finalmente, qualcuno che capiva che non cercavamo né capi che ci guidassero né greggi da dover condurre alla terra promessa. Né padroni né schiavi. Né caudillos né masse senza cervello. Però non avevamo ancora constatato se fosse possibile che guardassero e ascoltassero ciò che veramente eravamo.
All’interno, intanto, l’avanzare dei villaggi è stato impressionante. Allora ci fu il corso “La libertà secondo gli zapatisti”. Presto ci rendemmo conto che già c’era una generazione che poteva guardarci negli occhi, che poteva ascoltarci e parlarci senza aspettarsi guide o capi, né pretendere sottomissione o seguito. Marcos, il personaggio, non era già più necessario. La nuova tappa della lotta zapatista era pronta.
Passò quindi ciò che passò e molte e molti di voi, compagne e compagni di la Sexta, lo conoscete direttamente. Potrete dire dopo che la faccenda del personaggio fu noiosa. Però una revisione onesta di quei giorni dirà quante e quanti si voltarono a guardarci, con apprezzamento o con disprezzo, per i mutamenti di un costume.
Così il cambiamento del comando no avviene per una malattia o per la morte, né per cambio di ruoli interno, purga o epurazione. Si fa in accordo ai cambiamenti interni che ha vissuto e vive l’EZLN. So che tutto questo non quadra con gli schemi quadrati soliti delle persone distinte che stanno di sopra, ma la verità è che non ci interessa. E se questo rovina la pigra e povera elaborazione dei rumorologi e degli zapatologi di Jovel, beh, amen.
Non sono né sono stato malato, né sono o sono stato morto. Oh sì, anche se tante volte mi uccisero, tante volte sono morto, e ancora sono qua. Se incoraggiammo questi rumors fu perché conveniva così.
L’ultimo grande trucco dell’ologramma fu simulare una malattia terminale, incluso tutte le morti che ha sofferto. Di certo, il “se la sua salute lo permette”, che il Subcomandante Insurgente Moisés usò nel comunicato annunciando la condivisione con il CNI, era un equivalente a “se il popolo lo chiede” o “se i sondaggi mi favoriscono” o “se dio mi concede la licenza” o altri luoghi comuni che sono stati il ritornello nella classe politica degli ultimi tempi.
Se mi permettete di darvi un consiglio: dovreste coltivare un po’ il senso dell’umorismo, non solo per la salute mentale e fisica, ma anche perché senza senso dell’umorismo non riuscirete a capire lo zapatismo. E chi non capisce, giudica: e chi giudica, condanna.
In realtà quella è stata la parte più semplice del personaggio. Per alimentare i rumors fu necessario solamente dire le cose a qualche persona in particolare: “ti dico un segreto però promettimi che non lo racconterai a nessuno”. Ovvio che lo raccontarono.
I principali collaboratori involontari dei rumors sull’infermità e sulla morte sono stati “gli esperti di zapatologia” che nella superba Jovel e nella caotica Città del Messico professano la loro vicinanza con lo zapatismo e la profonda conoscenza che hanno di esso; oltre, ovviamente, ai poliziotti che agiscono anche come giornalisti, e ai giornalisti che agiscono come poliziotti, e ai giornalisti che agiscono solo, e male, come giornalisti.
Grazie a tutte queste persone. Grazie per la loro discrezione. Fecero esattamente come noi avevamo previsto. L’unico male in tutto questo, è che ora dubito che qualcuno gli vada più a raccontare qualche segreto.
È nostra convinzione e nostra pratica che per rivelarsi e lottare non siano necessari capi né caudillos, né messia né salvatori. Per lottare si necessita solo di un poco di vergogna, tanta dignità e molta organizzazione. Ciò che vi è in più, o serve al collettivo o non serve.
È stato particolarmente comico quello che il culto dell’individuo ha provocato nel politologi e negli analisti che stanno sopra. Ieri dissero che il futuro di questo paese messicano dipendeva dall’alleanza di due personalità. Il giorno prima dissero che Peña Nieto si rendeva indipendente da Salinas de Gortari, senza accorgersi che, allora, se criticavano Peña Nieto, si mettevano dalla parte di Salinas de Gortari; e che se criticavano quest’ultima, appoggiavano Peña Nieto. Ora dicono che bisogna optare per un bando nella lotta di quelli che stanno sopra per il controllo delle telecomunicazioni, cosicché o stai con Slim o con Azcárraga-Salinas. E più in alto, o con Obama o con Putin.
Coloro che dall’alto sospirano e guardano possono continuare a cercare il loro leader; possono continuare a pensare che ora sì, si rispetteranno i risultati elettorali; che ora sì, Slim appoggerà l’opzione elettorale di sinistra; che ora sì in Game of Thrones appariranno i draghi e le battaglie; che ora sì, nella serie televisiva The Walking Dead, Kirkman andrà a ingraziarsi il comico; che ora sì, che gli attrezzi fatti in Cina non si rovineranno già dal primo utilizzo; che ora sì, ora il calcio torna ad essere uno sport e non meri affari.
E sì, può essere che in alcuni di questi casi ciò accada, però non c’è da dimenticare che in tutto questo si è meri spettatori, vale a dire, consumatori passivi.
Chi ha odiato o amato il Subcomandante Marcos ora sa che ha odiato e amato un ologramma. I suoi amori e il suo odio sono stati, quindi, inutili, sterili, vuoti, vacui.
Non ci sarà quindi una casa-museo o placche di metallo dove io sono nato e cresciuto. Né ci sarà chi vivrà delle vicende del Subcomandante Marcos. Né si erediterà il suo nome ed il suo incarico. Non ci saranno viaggi tutti pagati per dare da parlare all’estero. Non ci sarà trasporto né attenzione in ospedali di lusso. Non ci saranno vedove né eredi. Non ci saranno funerali, né onori, né statue, né musei, né premi, né niente di ciò che il sistema fa per promuovere il culto dell’individuo e per sminuire la collettività.
Il personaggio fu creato e ora noi i suoi creatori, gli zapatisti e le zapatiste, lo distruggiamo. Se qualcuno capisce questa lezione che stanno dando i nostri compagni e le nostre compagne, avrà capito uno dei fondamenti dello zapatismo. Così negli ultimi anni è successo quello che è successo.
Allora abbiamo visto che il costume, il personaggio, l’ologramma, beh, non era necessario. A volte pianifichiamo, altre volte aspettiamo il momento indicato: la tempistica e il luogo precisi per mostrare ciò che in verità siamo a coloro che in realtà sono. Allora arrivò Galeano con la sua morte a indicarci il luogo e la tempistica: “qui, a La Realidad; ora: nel dolore e nella rabbia”.

V. Il dolore e la rabbia. Sussurri e grida
Quando lentamente arrivammo qui a La Realidad, senza che nessuno ce lo dicesse iniziammo a parlare in sussurri. Piano parlava il nostro dolore, ancor più piano parlava la nostra rabbia. Come se cercassimo di evitare che Galeano venisse spaventato dai rumori, dai suoni che gli erano alieni. Come se le nostre voci e i nostri passi lo chiamassero. “Aspetta compagno”, diceva il nostro silenzio. “Non andartene”, sussurravano le nostre parole. Però ci sono altri dolori e altre ire.
Proprio ora, in altri angoli del Messico e del mondo, un uomo, una donna, un bambino, una bambina, un anziano, un’anziana, una memoria, è attaccata a colpo sicuro, circondata dal sistema che si è fatto crimine vorace, è bastonata, accoltellata, le viene dato il colpo di grazia, trascinata fra gli sbeffeggiamenti, abbandonata, e recuperato e avvolto il suo corpo, la sua vita sotterrata.
Solo qualche esempio:
Alexis Benhumea, assassinato in Messico. Francisco Javier Cortés, assassinato in Messico. Juan Vázquez Guzmán, assassinato in Chiapas. Juan Carlos Gómez Silvano, assassinato in Chiapas. El compa Kuy, assassinato nel DF. Carlo Giuliani, assassinato in Italia. Aléxis Grigoropoulos, assassinato in Grecia. Wajih Wajdi al-Ramahi, assassinato in un campo profughi nella città cisgiordana di Ramala, a 14 anni, ucciso da un colpo alla spalla sparato da un posto d’osservazione dell’esercito israeliano, e per lui non vi sono stati cortei, né proteste né altro in strada. Matías Valentín Catrileo Quezada, mapuche assassinato in Chile. Teodulfo Torres Soriano, compagno de la Sexta desaparecido a Città del Messico. Guadalupe Jerónimo y Urbano Macías, comuneros di Cherán, assassinato a Michoacán. Francisco de Asís Manuel, desaparecido a Santa María Ostula. Javier Martínes Robles, desaparecido a Santa María Ostula. Gerardo Vera Orcino, desaparecido a Santa María Ostula. Enrique Domínguez Macías, desaparecido a Santa María Ostula. Martín Santos Luna, desaparecido a Santa María Ostula. Pedro Leyva Domínguez, assassinato a Santa María Ostula. Diego Ramírez Domínguez, assassinato a Santa María Ostula. Trinidad de la Cruz Crisóstomo, assassinato a Santa María Ostula. Crisóforo Sánchez Reyes, assassinato a Santa María Ostula. Teódulo Santos Girón, desparecido a Santa María Ostula. Longino Vicente Morales, desaparecido a Guerrero. Víctor Ayala Tapia, desaparecido a Guerrero. Jacinto López Díaz “El Jazi”, assassinato a Puebla. Bernardo Vázquez Sánchez, assassinato a Oaxaca. Jorge Alexis Herrera, assassinato a Guerrero. Gabriel Echeverría, assassinato a Guerrero. Edmundo Reyes Amaya, desaparecido a Oaxaca. Gabriel Alberto Cruz Sánchez, desaparecido a Oaxaca. Juan Francisco Sicilia Ortega, assassinato a Morelos. Ernesto Méndez Salinas, assassinato a Morelos. Alejandro Chao Barona, assassinato a Morelos. Sara Robledo, assassinata a Morelos. Juventina Villa Mojica, assassinata a Guerrero. Reynaldo Santana Villa, assassinato a Guerrero. Catarino Torres Pereda, assassinato a Oaxaca. Bety Cariño, assassinata a Oaxaca. Jyri Jaakkola, assassinato a Oaxaca. Sandra Luz Hernández, assassinata a Sinaloa. Marisela Escobedo Ortíz, assassinata a Chihuahua. Celedonio Monroy Prudencio, desaparecido a Jalisco. Nepomuceno Moreno Nuñez, assassinato a Sonora.
I migranti spariti in modo forzoso e probabilmente assassinati in qualsiasi angolo del territorio messicano.
I detenuti che si vogliono uccidere in vita: Mumia Abu Jamal, Leonard Peltier, los Mapuche, Mario González, Juan Carlos Flores.
Il continuo sotterramento di voci che furono vita, messe a tacere dal cadere della terra e dal chiudersi delle sbarre.
E l’ironia maggiore è che, ad ogni palettata di terra che butta l’assassino di turno, il sistema continua a dire: “non vali niente, non importi, nessuno ti piange, a nessuno dà rabbia la tua morte, nessuno segue il tuo passo, nessuno eleva ad esempio la tua vita”. E con l’ultima palettata sentenzia: “se anche catturassero e castigassero noi che ti abbiamo ucciso, sempre incontrerò un altro, altra, altri, che di nuovo ti nasconderanno e ripeteranno la danza macabra che terminò con la tua morte”. E dice: “La tua piccola giustizia, nana, fabbricata perché i media ufficiali simulino e ottengano un po’ di calma per frenare il caos che gli vola addosso, non mi spaventa, non mi danneggia, non mi castiga”.
Che diciamo a questo cadavere che, in qualsiasi angolo del mondo di quelli che stanno sotto, lo si sta seppellendo nell’oblio? Che solo il nostro dolore e la nostra rabbia contano? Che solo il nostro coraggio importa? Che mentre sussurriamo la nostra storia, non ascoltiamo il suo grido, il suo urlo disperato?
Ha tanti nomi l’ingiustizia e sono tante le urla che provoca. Però il nostro dolore e la nostra rabbia non ci impediscono di ascoltare. E i nostri sussurri non sono solo per lamentare la caduta delle nostre morti ingiuste. Sono per poter ascoltare in questo modo altri dolori, fare nostre altre ire e continuare così nel complicato, lungo e tortuoso cammino a fare di tutto questo un urlo disperato che si trasformi in lotta di liberazione.
E non dimenticare che, mentre qualcuno sussurra, un altro grida. E solo l’orecchio attento può ascoltare.
Mentre parliamo e ascoltiamo, ora, qualcuno urla di dolore, di rabbia. E così come si deve apprendere a dirigere lo sguardo, l’ascolto deve trovare la strada che lo renda fertile. Perché mentre qualcuno riposa, c’è chi cammina in salita.
Per conseguire questo obiettivo, basta abbassare lo sguardo ed elevare il cuore.
Potete?
Potrete?
La piccola giustizia assomiglia tanto alla vergogna. La piccola giustizia è quella che assegna impunità; castigando uno, assolve altri. Quella che noi vogliamo, per la quale lottiamo, non si esaurisce nel trovare gli assassini del compagno Galeano e assicurarsi che ricevano il loro castigo (così sarà, che nessuno si illuda).
La ricerca paziente e ostinata trova la verità, non il sollievo della rassegnazione. La grande giustizia deve riguardare il compagno Galeano sotterrato. Perché noi non ci domandiamo cosa fare della sua morte, ma cosa dobbiamo fare con la sua vita.
Scusate se entro nel fangoso terreno dei luoghi comuni, però quel compagno non meritava di morire, non così. Tutto il suo impegno, il suo sacrificio quotidiano, puntuale, invisibile per chi non era dei nostri, è stato per la vita. E se vi posso dire che è stato una creatura straordinaria e più, e questo è quello che meraviglia, ci sono mille di questi compagni e compagne come lui nelle comunità indigene zapatiste, con lo stesso impegno, identico accordo, uguale acutezza e un’unica meta: la libertà. E facendo conti macabri: se qualcuno merita la morte è chi non esiste né è esistito, se non nella fugacità dei mezzi di comunicazione professionali.
Già ci ha detto il nostro compagno capo e portavoce dell’EZLN, il Subcomandante Insurgente Moisés, che uccidendo Galeano, o qualsiasi degli zapatisti, quelli che stanno sopra volevano ammazzare l’intero EZLN. Non come esercito, ma come stupido ribelle che costruisce e crea vita dove loro, quelli che stanno sopra, vogliono il Páramo delle industrie minerarie, petrolifere, turistiche, la morte della terra e di che la abita e lavora. E ha detto che siamo venuti, come Comando Generale dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, a dissotterrare Galeano.
Pensiamo che sia necessario che uno di noi muoia perché Galeano possa vivere. E per far sì che quell’impertinente che è la morte sia soddisfatta, al suo posto mettiamo un altro nome, perché Galeano viva e la morte non si porti via una vita, ma solo un nome, lettere svuotate di tutto il loro significato, senza propria storia, senza vita.
Così abbiamo deciso che oggi Marcos smette di vivere.
Lo porteranno con la mano sotto l’ombra del guerriero e con un po’ di luce perché non si perda nel cammino, Don Durito andrà con lui, lo stesso il Vecchio Antonio. Non ne sentiranno la mancanza le bambine e i bambini che prima si ritrovavano per ascoltare i suoi racconti, beh già son grandi, già hanno giudizio, già lottano come mai per la libertà, la democrazia e la giustizia, che sono i compiti di qualsiasi zapatista. Il gatto-cane, e non un cigno, intonerà ora il canto d’addio.
E alla fine, chi capisce, saprà che non se ne va chi c’è sempre stato, né muore chi non ha vissuto. E la morte se ne andrà ingannata da un indigeno con il nome di Galeano nella lotta, e in queste pietre che hanno posto sulla sua tomba tornerà a camminare e insegnare, a chi voglia, le basi dello zapatismo, cioè, non vendersi, non ritirarsi, non arrendersi.
Ah la morte! Come se non fosse evidente che quelli che stanno sopra li libera da tutte le corresponsabilità, aldilà dell’orazione funebre, l’omaggio grigio, la statua sterile, il museo che conserva.
A noi? Beh, la morte ci coinvolge per quello che riguarda la vita. E così noi siamo qui, beffando la morte in realtà.
Compagni:
Detto tutto questo, essendo le 02.08 del 25 di maggio del 2014 nel fronte di guerra sudorientale dell’EZLN, dichiaro che smette di esistere il conosciuto come Subcomandante Insurgente Marcos, l’autodenominato “subcomandante di acciaio inossidabile”.
Questo è quanto.
Con la mia voce, già ha smesso di parlare il portavoce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
Bene. Saluti e a mai più… o per sempre, chi ha capito saprà che questo già non importa, che non ha mai importato.

Da La Realidad zapatista,
Subcomandante Insurgente Marcos
Messico, 24 di maggio del 2014

P.S.1 – “Game is over”?
P.S.2 – Scaccomatto?
P.S.3 – Touché?
P.S. 4 – Ci si vede, raza, e mandatemi del tabacco.
P.S. 5 – Mmh… e così è questo l’inferno… Quel Piporro, Pedro, José Alfredo! Come? Da maschilisti? Nah, non penso, se io mai…
P.S. 6 – Ma, come si suol dire, senza il costume, posso mica andare in giro nudo?
P.S. 7 – Sentite, c’è troppo buio qui, ho bisogno di un po’ di luce.
(…)
[Si sente una voce]
Viviate buone albe compagni e compagne. Il mio nome è Galeano, Subcomandante Insurgente Galeano.
Altri si chiamano Galeano?
[si sentono voci e urla]
Ah, mi hanno detto che quando sarei nato di nuovo lo avrei fatto in collettivo.
Così sia.