Compagni:
Buonanotte, pomeriggio, giorno, ovunque sia la tua posizione geografica, il tuo tempo, la tua maniera.
Buone prime ore del mattino. Vorrei chiedere ai miei compagni di la
Sexta che vivono da altre parti, specialmente ai media liberi compagni,
la vostra pazienza, tolleranza e comprensione per quello che sto per
dire, perché queste saranno le mie ultime parole al pubblico prima di
smettere di esistere. Mi rivolgo a voi e a tutti coloro che tramite voi
ci ascoltano e ci guardano. Forse all’inizio, o nel mentre di queste
parole, andrà crescendo nei vostri cuori la sensazione che qualcosa sia
fuori posto, che qualcosa non quadri, come se mancassero diversi pezzi
per trovare il senso di un rompicapo che vi si pone di fronte agli
occhi. Come se già di per sé mancasse quello che manca. Forse dopo, dopo
giorni, settimane, mesi, anni, decenni, dopo potrebbe essere compreso
ciò che ora diremo. I miei compagni e compagne dell’EZLN a tutti i suoi
livelli non mi preoccupano, perché di per sé questa qua è la nostra
maniera: camminare, lottare, sapendo sempre che manca ciò che manca. E
come se non bastasse, che non si offenda nessuno, l’intelligenza dei
compagni zapatisti è molto al di sopra della mediocrità. Peraltro, ci
rende soddisfatti e orgogliosi il fatto che sia davanti ai compagni,
tanto dell’EZLN come di la Sexta, che diamo la notizia di questa
decisione.
E quanto sarà bello per i media liberi, alternativi, indipendenti, che
questo arcipelago di dolori, rabbia e dignitosa lotta che si chiam “la
Sexta” verrà a conoscenza di ciò che io vi dirò, dove voglio che si
trovino. Se a qualcun altro interessasse sapere cosa accadde in questo
giorno, dovrà rivolgersi ai media liberi per scoprirlo. Bene dunque.
Benvenute e benvenuti nella realtà zapatista.
I. Una decisione difficile.
Quando irrompemmo nel 1994 con sangue e fuoco, non iniziava la guerra
per noi, noi gli zapatisti. La guerra di cui parlo, con la morte e
distruzione, le privazioni e l’umiliazione, lo sfruttamento e il
silenzio imposto al vinto, già la subivamo da secoli. Quello che inizia
per noi nel 1994 e uno dei molti momenti di quelli che stanno sotto
contro quelli che stanno sopra, contro il suo mondo.
Quella guerra di resistenza che giorno dopo giorno si imbatte nelle vie
di ogni angolo dei cinque continenti, nei suoi campi e nelle sue
montagne. Era ed è la nostra, come quella di molti e di molte che stanno
sotto, una guerra per l’umiltà e contro il neoliberismo.
Contro la morte, noi domandiamo vita.
Contro il silenzio, esigiamo la parola e il rispetto.
Contro la dimenticanza, la memoria.
Contro l’umiliazione e il disprezzo, la dignità.
Contro l’oppressione, la ribellione.
Contro la schiavitù, la libertà.
Contro l’imposizione, la democrazia.
Contro il crimine, la giustizia.
Chi con un minimo di umanità nelle vene potrebbe mettere in discussione queste richieste?
E molti queste richieste le ascoltarono.
La guerra che abbiamo sollevato ci ha dato il privilegio di arrivare
alle orecchie e ai cuori attenti e generosi, a noi geograficamente
vicini, o lontani. Mancava quello che mancava. Manca quello che manca,
però abbiamo ottenuto lo sguardo dell’altro, le sue orecchie, il suo
cuore. Dunque ci vedevamo di fronte alla necessità di rispondere a una
domanda decisiva: “Cosa verrà ora?” Nel tetro calcolo della vigilia non
c’era la possibilità di prevederlo. E così questa domanda ci condusse
verso altri quesiti: Preparare i successori nella rotta verso la
morte? Formare più soldati, e migliori? Cambiare gli impegni e
migliorare la nostra malconcia macchina da guerra? Simulare dialoghi e
disposizioni per la pace, però continuare a preparare nuovi
golpe? Uccidere o morire come unico destino? O dovevamo ricostruire il
cammino della vita, quello che fu rotto e continua ad essere rotto
dall’alto? Il cammino non solo dei popoli autoctoni, ma anche di
lavoratori, studenti, maestri, giovani, contadini, oltre a tutte le
differenze che si celebrano in alto, e che qua sotto si perseguitano e
si castigano. Dovevamo incidere il nostro sangue nel cammino che altri
compiono verso il Potere, o rivolgere il cuore e lo sguardo a ciò che
siamo, e a coloro che sono ciò che siamo, vale a dire, i popoli
autoctoni, guardiani della terra e della memoria? Nessuno ascoltò
allora, però già dai primi balbettii che furono le nostre parole
avvertivamo che il nostro dilemma non era negoziare o combattere, bensì
vivere, o morire. Chi avvertì già allora che quel primo dilemma non era
individuale, forse avrà compreso meglio ciò che è accaduto alla realtà
zapatista negli ultimi 20 anni. Però io vi ho detto che ci siamo
imbattuti in quella domanda e in quel dilemma. E abbiamo scelto.
E invece che dedicarci a forme di guerriglia, soldati e squadroni,
preparammo promotori di educazione, di salute, e cominciarono ad alzarsi
le basi di quell’autonomia che oggi meraviglia il mondo. Invece che
costruire caserme, migliorare il nostro equipaggiamento, alzare muri e
trincee, si sono erette scuole, si costruirono ospedali e centri di
salute, migliorammo le nostre condizioni di vita. Invece che lottare per
occupare un luogo nel Partenone delle morti individualizzate di quelli
che stanno sotto, scegliemmo di costruire la vita. Questo al centro
della guerra, che non perché sorda è meno letale.
Perché, compagni, una cosa è gridare “non siete soli” e un’altra è
affrontare solo con il proprio corpo una colonna di blindati di truppe
federali, come accadde nella zona degli Altos de Chiapas, e vediamo se
la fortuna ci assiste e qualcuno se ne accorge, e vediamo se c’è un poco
più di fortuna e chi si accorge si indigna, e un altro po’ di fortuna
ancora e colui che si indigna fa qualcosa. Nel frattempo, i tankette
erano frenati dalle donne zapatiste, e mancando il parcheggio fu con
insulti alle madri e pietre che il serpente di acciaio dovette
arretrare. E nella zona nord di Chiapas, si soffre la nascita e lo
sviluppo delle guardie bianche, riciclate allora come paramilitari;
nella zona Tzotz Choj le aggressioni continue da parte di organizzazioni
di contadini che di “indipendenza” a volte non hanno nemmeno il nome; e
nella zona della Selva Tzeltal la combinazione di paramilitari e
contractor.
Una cosa è gridare “tutti siamo Marcos” o “non tutti siamo Marcos”,
secondo il caso o cosa, altra cosa è la persecuzione con tutti i
meccanismi di guerra, l’invasione di villaggi, i rastrellamenti nelle
montagne, l’uso di cani addestrati, le pale degli elicotteri di
artiglieria che scompigliavano le fronde delle ceibe, il “vivo o morto”
che nacque nei primi giorni di gennaio del 1994 e raggiunse il suo
livello più isterico nel 1995 e nei 6 anni dopo, e che questa zona di
Selva Fronteriza subì dal 1995 e alla quale dopo si somma la stessa
sequenza di aggressioni di organizzazioni contadine, uso di
paramilitari, militarizzazione, istigazioni. Se c’è qualche mito in
tutto ciò non è il passamontagna, ma la menzogna che ripetono fin da
quegli anni, ripresa anche da persone con studi autorevoli, che la
guerra con gli zapatisti durò solo 12 giorni.
Non parlerò dettagliatamente dei miei ricordi. Qualcuno con un minimo
di spirito critico e serietà può ricostruire la storia, e sommare e
sottrarre per ricavarne il risultato, e dire se furono più i reporter
che la polizia e i soldati; se furono più le adulazioni che le minacce e
gli insulti; se il prezzo che si era posto era per vedere il
passamontagna o per “catturarlo vivo o morto”. In quelle condizioni,
alcune volte solo con le nostre forze e altre con l’appoggio generoso e
incondizionato della gente buona di tutto il mondo, proseguivamo nella
costruzione, ancora non terminata, certo, però già definita in ciò che
siamo. Non è quindi solo una frase, sfortunata o fortunata, a seconda
che la si veda dal basso o dall’alto, “qui siamo i morti di sempre, che
muoiono ancora, però ora per vivere”. È la verità.
E quasi 20 anni dopo…
Il 21 dicembre del 2012, quando la politica e l’esoterismo
coincidevano, come altre volte, nel predicare catastrofi che sono sempre
solo per quelli di sempre, quelli che stanno sotto, ripetemmo il colpo
di mano del 1 gennaio del ’94 e, senza sparare un solo colpo, senza
armi, con solo il nostro silenzio, prostrammo di nuovo la superbia delle
città culla e nido del razzismo e del disprezzo. Se il primo di gennaio
del 1994 migliaia di uomini e donne senza voce attaccarono e
sottomisero le guarnigioni che proteggevano le città, il 21 di dicembre
del 2012 furono decine di migliaia le persone che presero senza parole
gli edifici da dove si celebrava la nostra scomparsa. Il solo fatto
inappellabile che l’EZLN non solo non si era indebolito, figuriamoci
scomparso, ma addirittura era cresciuto quantitativamente e
qualitativamente sarebbe bastato perché qualsiasi mente mediamente
intelligente si accorgesse che, in 20 anni, qualcosa era cambiato
all’interno dell’EZLN e delle comunità.
Magari più di qualcuno può pensare che abbiamo sbagliato a scegliere,
che un esercito non può né deve impegnarsi per la pace. Per molte
ragioni, certo, però la cosa principale era ed è che continuando per
quella strada avremmo finito per scomparire davvero.
Forse è certo. O forse ci sbagliammo a scegliere di coltivare la vita
al posto di adorare la morte. Però non scegliemmo ascoltando quelli di
fuori. Non a coloro che sempre domandano ed esigono la lotta e la lotta
alla morte, mentre i morti li mettono gli altri. Scegliemmo guardandoci e
ascoltandoci, scegliemmo di essere il Votán collettivo che siamo.
Scegliemmo la ribellione, vale a dire, la vita
Ciò non vuole dire che non sapevamo che la guerra di quelli che
stanno sopra pianificava e pianifica di imporre di nuovo il suo dominio
sopra di noi. Sapevamo e sappiamo che prima o poi dovremo difendere ciò
che siamo e come siamo. Sapevamo e sappiamo che continuerà ad esservi la
morte perché ci sia la vita. Sapevamo e sappiamo che per vivere,
moriamo.
II. Un fallimento?
Dicono ogni tanto che non abbiamo ottenuto nulla.
Non smette di sorprendere che si maneggi con tanta disinvoltura
questa posizione. Pensano che i figli e le figlie dei comandanti e delle
comandanti dovrebbero poter godere di viaggi all’estero, di studi in
scuole private e poi di posti autorevoli in imprese o nella politica Che
al posto di lavorare la terra per prendere da essa con sudore e fatica i
suoi prodotti, dovrebbero mostrarsi nei social network e divertendosi
nelle discoteche, esibendo il lusso. Magari i subcomandanti dovrebbero
procreare e dare in eredità ai loro discendenti l’incarico, le prebende,
i tempietti, come fanno i politici. Magari dovevamo, come i dirigenti
della CIOAC-H e di altre organizzazioni contadine, ricevere privilegi e
paghe in progetti e appoggi, stare con la maggioranza e dare alle basi
solo qualche briciola, a patto che compiano gli ordini criminali che
arrivano dall’alto.
Però è certo, non abbiamo ottenuto nulla di questo per noi.
Difficile da credere che 20 anni dopo quel “nulla per noi” non
sarebbe risultato solo uno slogan, una buona frase per striscioni e
canzoni, bensì una realtà, La Realidad.
Se essere coerenti è un fallimento, allora l’incoerenza è il cammino
per il successo, la rotta verso il Potere. Però noi non vogliamo
prendere quella strada. Non ci interessa.
Con questa base preferiamo fallire piuttosto che trionfare.
III. Il cambio.
In questi 20 anni c’è stato un cambio d’incarichi
multiplo e complesso nell’EZLN. Alcuni hanno notato solo quello
evidente, ossia quello generazionale. Ora stanno facendo la lotta e
dirigendo la resistenza coloro che erano piccoli o non erano ancora nati
all’inizio della sollevazione. Però alcuni studiosi non si sono accorti
di altri cambiamenti. Quello di classe: dall’originaria classe
medio-istruita, a quella indigena contadina. Quello di razza: dalla
direzione meticcia alla direzione nettamente indigena.
E la cosa più importante: l’evoluzione del pensiero:
dall’avanguardismo rivoluzionario al comandare obbedendo; dalla presa
del Potere dall’alto alla costruzione del potere dal basso; dalla
politica professionale alla politica contadina; dai leader ai popoli;
dalla marginalizzazione di genere alla partecipazione diretta delle
donne; dal ridere dell’altro, alla celebrazione della differenza.
Non mi dilungherò oltre su queste cose, perché è stato precisamente
il corso “La libertà secondo gli zapatisti” l’opportunità di constatare
se in un territorio organizzato vale più il personaggio che la
comunità. Personalmente non riesco a capire come gente pensante che
afferma che la storia la fanno i Popoli, si possa spaventare tanto
davanti all’esistenza di un governo del popolo dove non compaiono gli
specialisti dell’”essere” governo. Perché li riempie di terrore il fatto
che siano i popoli a comandare, quelli che dirigano i loro propri
passi? Perché muovono la testa con disapprovazione di fronte al
comandare obbedendo?
Il culto verso l’individualismo incontra nel culto dell’avanguardismo
il suo estremo più fanatico. Ed è stato questo precisamente, il fatto
che gli indigeni comandino e che un indigeno sia il portavoce e il capo,
quello che li atterrisce, che li fa scostare, e alla fine vanno via per
continuare a cercare qualcuno che definisca le avanguardie, capi e
leader. Perché c’è razzismo anche nella sinistra, soprattutto quella che
pretende di essere rivoluzionaria.
L’Ezetaelleenne non è fatto di queste cose. Per questo non tutti possono essere zapatisti.
IV. Un ologramma che si evolve e con garbo. Quello che non sarà
Prima dell’alba del 1994 ho passato 10 anni in queste montagne. Ho
conosciuto e trattato personalmente con alcune persone dopo la cui morte
un po’ siamo morti anche noi. Conosco e parlo da allora con altri e
altre che oggi sono qui come noi.
Molte mattine mi trovavo a cercare di digerire le storie che mi
raccontavano, i mondi che disegnavano con i silenzi, le mani, gli
sguardi, la loro insistenza nel sottolineare qualcosa più in là.
È un sogno quel mondo là, tanto lontano, tanto alieno?
A volte pensavo che si era andati troppo oltre, che le parole che ci
guidavano e ci guidano venivano da tempi per i quali non c’era alcun
calendario, perduti come se stessero in luoghi geografici imprecisi:
sempre il Sud degno onnipresente in tutti i punti cardinali.
Dopo seppi che non mi parlavano di un mondo inesatto e, quindi, improbabile.
Quel mondo già andava al suo ritmo.
Voi, non lo avete visto già allora? Non lo vedete?
Non abbiamo ingannato nessuno di quelli che stanno sotto. Non
nascondiamo a nessuno che siamo un esercito, con la sua struttura
piramidale, il suo centro di comando, le sue decisioni dall’alto verso
il basso. Non per ingraziarci i libertari, o per moda, neghiamo quello
che siamo.
Però tutti possono constatare ora se il nostro è un esercito che
esclude qualcuno o che si impone. E devo dire una cosa, per la quale ho
già chiesto l’autorizzazione del compagno Subcomandante Insurgente
Moisés: nulla di ciò che abbiamo fatto, nel bene e nel male, sarebbe
stato possibile se un esercito armato, quello zapatista di liberazione
nazionale, non si fosse sollevato contro il malgoverno esercitando il
diritto alla violenza legittima. La violenza di quelli che stanno sotto
verso quelli che stanno sopra.
Siamo guerrieri e come tali sappiamo qual è il nostro ruolo e il nostro momento.
Nell’alba del primo giorno del primo mese dell’anno 1994, un esercito
di giganti, vale a dire, di indigeni ribelli, scese nelle città per
scuotere il mondo col suo passaggio. Appena pochi giorni dopo, con il
sangue dei nostri caduti ancora fresco per le strade delle città, ci
siamo resi conto che coloro che venivano da fuori non ci
vedevano. Abituati a guardare dall’alto gli indigeni, non alzavano lo
sguardo per osservarci. Abituati a vederci umiliati, il loro cuore non
comprendeva la nostra dignitosa ribellione. Il loro sguardo si era
fermato sull’unico mulatto che videro col passamontagna, vale a dire,
che non guardavano. Allora i nostri capi dissero: “Loro vedono solo ciò
che è piccolo, rendiamo qualcuno tanto piccolo, cosicché lo vedano e
tramite lui possano scorgere noi”.
Cominciò così una “complessa manovra di distrazione, un trucco di
magia terribile e meraviglioso, una maliziosa mossa del nostro essere
cuori indigeni; la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei
suoi bastioni: i mezzi di comunicazione.”
Cominciò allora la costruzione del personaggio chiamato “Marcos”.
Chiedo a voi che mi seguiate in questo ragionamento. Supponiamo che
sia possibile un’altra forma con la quale neutralizzare un criminale.
Per esempio, creando per lui la sua arma suicida, fargli credere che sia
efficace, convincerlo a costruire, sulla base di questa efficacia,
tutto il suo piano, cosicché in quel momento nel quale egli si prepara a
sparare, l’“arma” ritorni ad essere ciò che è sempre stata:
un’illusione. L’intero sistema, ma soprattutto i suoi mezzi di
comunicazione, giocano a costruire fama per poi distruggerla, se non si
piega ai suoi disegni. Il suo potere risiedeva (ora non più, rimpiazzato
in questo dai social network) nel decidere cosa e chi esisteva in quel
momento nel quale sceglievano cosa nominavano e cosa mettevano a
tacere. Alla fine, non fate troppo caso a me, come si è dimostrato in
questi 20 anni, io non so niente di mezzi di comunicazione di massa. Il
fatto è che il Subcomandante Marcos passò dall’essere un portavoce ad
essere un elemento di distrazione.
Se il cammino della guerra, ossia, della morte, ci aveva preso 10
anni, quello della vita prese più tempo e richiese più sforzi, per non
parlare del sangue. Perché, sebbene possiate non crederlo, è più facile
morire che vivere. Avevamo bisogno di tempo per essere e per trovare chi
sapesse vederci come quelli che siamo. Avevamo bisogno di tempo per
trovare qualcuno che non ci vedesse dall’alto verso il basso, né dal
basso verso l’alto, e che invece ci guardasse negli occhi, che ci
vedesse con sguardo da compagni.
Stavo dicendo che allora cominciò la costruzione del personaggio.
Marcos un giorno aveva gli occhi azzurri, un altro verdi, o caffè, o
miele, o neri, tutto dipendeva da chi faceva l’intervista e scattava la
foto. Così fu riserva nella squadra di calcio professionale, impiegato
di aziende immobiliari, autista, filosofo, regista, e gli eccetera che
potete incontrare nei media di professione di quei giorni e in diversi
luoghi geografici. C’era un Marcos per tutte le occasioni, vale a dire,
per ogni intervista. E non fu facile, credetemi, non c’era allora
wikipedia e se veniva lo Stato spagnolo dovevo capire cosa fosse il
“corte inglés” [NdT: la più importante catena di grandi magazzini
spagnoli]; ad esempio, era un corte de traje [NdT: smoking] tipico dell’Inghilterra, una tienda de abarrotes [NdT: drogheria], o una tienda departamental [NdT: grandi magazzini].
Se mi permettete di descrivere Marcos il personaggio, allora, io
direi senza dubbi che era una facciata, un travestimento. Diciamo che,
per farmi capire, Marcos era un Media Non Libero (occhio, che non è la
stessa cosa di un media ufficiale).
Nella costruzione e nel mantenimento del personaggio ci furono alcuni errori. “Sbagliare è umano”, disse il fabbro.
Nel corso del primo anno esaurimmo, come si dice, il repertorio di
“Marcos” possibili. Così agli inizi del 1995 eravamo demoralizzati e il
processo dei villaggi era ancora ai suoi primi passi. Così nel 1995 già
non sapevamo come comportarci. Però, è allora che Zedillo “scopre”
Marcos con lo stesso metodo scientifico attraverso il quale si trova
l’ossatura, cioè, con la delazione esoterica.
La storia del tampiqueño [NdT: dalla città di Tampico] ci ha dato un
po’ di respiro, sebbene la frode successiva della Paca de Lozano ci fece
temere che i media avrebbero messo in dubbio lo “smascheramento” di
Marcos e che potessero scoprire che era una menzogna in più.
Fortunatamente non fu così. Come quella volta, i media continuarono a
portare avanti altre storie costruite ad arte.
Un po’ di tempo dopo il tampiqueño arrivò a queste terre. Insieme al
Subcomandante Insurgente Moisés, abbiamo parlato con lui. Gli abbiamo
offerto allora di tenere una conferenza congiunta, così che egli potesse
liberarsi della persecuzione, dato che era evidente che lui e Marcos
non erano la stessa persona. Non volle. Venne a vivere qua. Uscì alcune
volte e il suo volto si può incontrare nelle fotografie dei funerali dei
suoi genitori. Se volete potete intervistarlo. Ora vive in una comunità
in…. Ah, non vuole che si sappia dove vive. Non diremo nulla di più,
cosicché, se egli lo desidera, potrà un giorno raccontarvi la storia di
quello che ha vissuto dal 9 di febbraio del 1995. Da parte nostra non ci
rimane che ringraziarlo per averci passato dati che ogni tanto usiamo
per alimentare la “certezza” che il Subcomandante Marcos non sia ciò che
in realtà è, cioè un costume o un ologramma, bensì un professore
universitario, originario dell’allora Tamaulipas.
Nel frattempo continuiamo a cercare, cercarle, cercarli, coloro che
ora sono qui, e coloro che sono qua che però non ci sono. Lanciammo
iniziative per trovare l’altro, l’altra, gli altri compagni. Diverse
iniziative, che cercavano di incontrare lo sguardo e l’udito che
necessitiamo e meritiamo. Nel frattempo, seguivo l’avanzare dei villaggi
e i cambiamenti dei quali si è parlato molto o poco, che però si
possono constatare direttamente, senza intermediari. Nel cercare altro,
di quando in quando abbiamo fallito.
Chi incontravamo voleva comandare oppure essere comandato. C’era chi
si avvicinava e lo faceva nell’affanno di usarci, o per osservare da
dietro, sia con nostalgia antropologica, sia con nostalgia militante.
Così per alcuni eravamo comunisti, per altri trotzkisti, anarchici,
maoisti, per altri millenaristi, e qui la smetto con i vari “isti”,
perché possiate porre ciò che sia di vostra conoscenza.
Così fu fino alla Sexta Declaración della Selva Lacandona, la più
audace e più zapatista delle iniziative che abbiamo lanciato fino ad
ora. Con la Sexta alla fine abbiamo incontrato coloro che ci guardano
negli occhi e che ci salutano e abbracciano, e così ci si saluta e
abbraccia. Con la Sexta alla fine vi abbiamo incontrato. Finalmente,
qualcuno che capiva che non cercavamo né capi che ci guidassero né
greggi da dover condurre alla terra promessa. Né padroni né schiavi. Né
caudillos né masse senza cervello. Però non avevamo ancora constatato se
fosse possibile che guardassero e ascoltassero ciò che veramente
eravamo.
All’interno, intanto, l’avanzare dei villaggi è stato
impressionante. Allora ci fu il corso “La libertà secondo gli
zapatisti”. Presto ci rendemmo conto che già c’era una generazione che
poteva guardarci negli occhi, che poteva ascoltarci e parlarci senza
aspettarsi guide o capi, né pretendere sottomissione o seguito. Marcos,
il personaggio, non era già più necessario. La nuova tappa della lotta
zapatista era pronta.
Passò quindi ciò che passò e molte e molti di voi, compagne e
compagni di la Sexta, lo conoscete direttamente. Potrete dire dopo che
la faccenda del personaggio fu noiosa. Però una revisione onesta di quei
giorni dirà quante e quanti si voltarono a guardarci, con apprezzamento
o con disprezzo, per i mutamenti di un costume.
Così il cambiamento del comando no avviene per una malattia o per la
morte, né per cambio di ruoli interno, purga o epurazione. Si fa in
accordo ai cambiamenti interni che ha vissuto e vive l’EZLN. So che
tutto questo non quadra con gli schemi quadrati soliti delle persone
distinte che stanno di sopra, ma la verità è che non ci interessa. E se
questo rovina la pigra e povera elaborazione dei rumorologi e degli
zapatologi di Jovel, beh, amen.
Non sono né sono stato malato, né sono o sono stato morto. Oh sì,
anche se tante volte mi uccisero, tante volte sono morto, e ancora sono
qua. Se incoraggiammo questi rumors fu perché conveniva così.
L’ultimo grande trucco dell’ologramma fu simulare una malattia
terminale, incluso tutte le morti che ha sofferto. Di certo, il “se la
sua salute lo permette”, che il Subcomandante Insurgente Moisés usò nel
comunicato annunciando la condivisione con il CNI, era un equivalente a
“se il popolo lo chiede” o “se i sondaggi mi favoriscono” o “se dio mi
concede la licenza” o altri luoghi comuni che sono stati il ritornello
nella classe politica degli ultimi tempi.
Se mi permettete di darvi un consiglio: dovreste coltivare un po’ il
senso dell’umorismo, non solo per la salute mentale e fisica, ma anche
perché senza senso dell’umorismo non riuscirete a capire lo zapatismo. E
chi non capisce, giudica: e chi giudica, condanna.
In realtà quella è stata la parte più semplice del personaggio. Per
alimentare i rumors fu necessario solamente dire le cose a qualche
persona in particolare: “ti dico un segreto però promettimi che non lo
racconterai a nessuno”. Ovvio che lo raccontarono.
I principali collaboratori involontari dei rumors sull’infermità e
sulla morte sono stati “gli esperti di zapatologia” che nella superba
Jovel e nella caotica Città del Messico professano la loro vicinanza con
lo zapatismo e la profonda conoscenza che hanno di esso; oltre,
ovviamente, ai poliziotti che agiscono anche come giornalisti, e ai
giornalisti che agiscono come poliziotti, e ai giornalisti che agiscono
solo, e male, come giornalisti.
Grazie a tutte queste persone. Grazie per la loro discrezione. Fecero
esattamente come noi avevamo previsto. L’unico male in tutto questo, è
che ora dubito che qualcuno gli vada più a raccontare qualche segreto.
È nostra convinzione e nostra pratica che per rivelarsi e lottare non
siano necessari capi né caudillos, né messia né salvatori. Per lottare
si necessita solo di un poco di vergogna, tanta dignità e molta
organizzazione. Ciò che vi è in più, o serve al collettivo o non serve.
È stato particolarmente comico quello che il culto dell’individuo ha
provocato nel politologi e negli analisti che stanno sopra. Ieri dissero
che il futuro di questo paese messicano dipendeva dall’alleanza di due
personalità. Il giorno prima dissero che Peña Nieto si rendeva
indipendente da Salinas de Gortari, senza accorgersi che, allora, se
criticavano Peña Nieto, si mettevano dalla parte di Salinas de Gortari; e
che se criticavano quest’ultima, appoggiavano Peña Nieto. Ora dicono
che bisogna optare per un bando nella lotta di quelli che stanno sopra
per il controllo delle telecomunicazioni, cosicché o stai con Slim o con
Azcárraga-Salinas. E più in alto, o con Obama o con Putin.
Coloro che dall’alto sospirano e guardano possono continuare a
cercare il loro leader; possono continuare a pensare che ora sì, si
rispetteranno i risultati elettorali; che ora sì, Slim appoggerà
l’opzione elettorale di sinistra; che ora sì in Game of Thrones
appariranno i draghi e le battaglie; che ora sì, nella serie televisiva
The Walking Dead, Kirkman andrà a ingraziarsi il comico; che ora sì, che
gli attrezzi fatti in Cina non si rovineranno già dal primo utilizzo;
che ora sì, ora il calcio torna ad essere uno sport e non meri affari.
E sì, può essere che in alcuni di questi casi ciò accada, però non
c’è da dimenticare che in tutto questo si è meri spettatori, vale a
dire, consumatori passivi.
Chi ha odiato o amato il Subcomandante Marcos ora sa che ha odiato e
amato un ologramma. I suoi amori e il suo odio sono stati, quindi,
inutili, sterili, vuoti, vacui.
Non ci sarà quindi una casa-museo o placche di metallo dove io sono
nato e cresciuto. Né ci sarà chi vivrà delle vicende del Subcomandante
Marcos. Né si erediterà il suo nome ed il suo incarico. Non ci saranno
viaggi tutti pagati per dare da parlare all’estero. Non ci sarà
trasporto né attenzione in ospedali di lusso. Non ci saranno vedove né
eredi. Non ci saranno funerali, né onori, né statue, né musei, né premi,
né niente di ciò che il sistema fa per promuovere il culto
dell’individuo e per sminuire la collettività.
Il personaggio fu creato e ora noi i suoi creatori, gli zapatisti e
le zapatiste, lo distruggiamo. Se qualcuno capisce questa lezione che
stanno dando i nostri compagni e le nostre compagne, avrà capito uno dei
fondamenti dello zapatismo. Così negli ultimi anni è successo quello
che è successo.
Allora abbiamo visto che il costume, il personaggio, l’ologramma,
beh, non era necessario. A volte pianifichiamo, altre volte aspettiamo
il momento indicato: la tempistica e il luogo precisi per mostrare ciò
che in verità siamo a coloro che in realtà sono. Allora arrivò Galeano
con la sua morte a indicarci il luogo e la tempistica: “qui, a La
Realidad; ora: nel dolore e nella rabbia”.
V. Il dolore e la rabbia. Sussurri e grida
Quando lentamente arrivammo qui a La Realidad, senza
che nessuno ce lo dicesse iniziammo a parlare in sussurri. Piano
parlava il nostro dolore, ancor più piano parlava la nostra rabbia. Come
se cercassimo di evitare che Galeano venisse spaventato dai rumori, dai
suoni che gli erano alieni. Come se le nostre voci e i nostri passi lo
chiamassero. “Aspetta compagno”, diceva il nostro silenzio. “Non
andartene”, sussurravano le nostre parole. Però ci sono altri dolori e
altre ire.
Proprio ora, in altri angoli del Messico e del mondo, un uomo, una
donna, un bambino, una bambina, un anziano, un’anziana, una memoria, è
attaccata a colpo sicuro, circondata dal sistema che si è fatto crimine
vorace, è bastonata, accoltellata, le viene dato il colpo di grazia,
trascinata fra gli sbeffeggiamenti, abbandonata, e recuperato e avvolto
il suo corpo, la sua vita sotterrata.
Solo qualche esempio:
Alexis Benhumea, assassinato in Messico. Francisco Javier Cortés,
assassinato in Messico. Juan Vázquez Guzmán, assassinato in
Chiapas. Juan Carlos Gómez Silvano, assassinato in Chiapas. El compa
Kuy, assassinato nel DF. Carlo Giuliani, assassinato in Italia. Aléxis
Grigoropoulos, assassinato in Grecia. Wajih Wajdi al-Ramahi, assassinato
in un campo profughi nella città cisgiordana di Ramala, a 14 anni,
ucciso da un colpo alla spalla sparato da un posto d’osservazione
dell’esercito israeliano, e per lui non vi sono stati cortei, né
proteste né altro in strada. Matías Valentín Catrileo Quezada, mapuche
assassinato in Chile. Teodulfo Torres Soriano, compagno de la Sexta
desaparecido a Città del Messico. Guadalupe Jerónimo y Urbano Macías,
comuneros di Cherán, assassinato a Michoacán. Francisco de Asís Manuel,
desaparecido a Santa María Ostula. Javier Martínes Robles, desaparecido a
Santa María Ostula. Gerardo Vera Orcino, desaparecido a Santa María
Ostula. Enrique Domínguez Macías, desaparecido a Santa María
Ostula. Martín Santos Luna, desaparecido a Santa María Ostula. Pedro
Leyva Domínguez, assassinato a Santa María Ostula. Diego Ramírez
Domínguez, assassinato a Santa María Ostula. Trinidad de la Cruz
Crisóstomo, assassinato a Santa María Ostula. Crisóforo Sánchez Reyes,
assassinato a Santa María Ostula. Teódulo Santos Girón, desparecido a
Santa María Ostula. Longino Vicente Morales, desaparecido a
Guerrero. Víctor Ayala Tapia, desaparecido a Guerrero. Jacinto López
Díaz “El Jazi”, assassinato a Puebla. Bernardo Vázquez Sánchez,
assassinato a Oaxaca. Jorge Alexis Herrera, assassinato a
Guerrero. Gabriel Echeverría, assassinato a Guerrero. Edmundo Reyes
Amaya, desaparecido a Oaxaca. Gabriel Alberto Cruz Sánchez, desaparecido
a Oaxaca. Juan Francisco Sicilia Ortega, assassinato a Morelos. Ernesto
Méndez Salinas, assassinato a Morelos. Alejandro Chao Barona,
assassinato a Morelos. Sara Robledo, assassinata a Morelos. Juventina
Villa Mojica, assassinata a Guerrero. Reynaldo Santana Villa,
assassinato a Guerrero. Catarino Torres Pereda, assassinato a
Oaxaca. Bety Cariño, assassinata a Oaxaca. Jyri Jaakkola, assassinato a
Oaxaca. Sandra Luz Hernández, assassinata a Sinaloa. Marisela Escobedo
Ortíz, assassinata a Chihuahua. Celedonio Monroy Prudencio, desaparecido
a Jalisco. Nepomuceno Moreno Nuñez, assassinato a Sonora.
I migranti spariti in modo forzoso e probabilmente assassinati in qualsiasi angolo del territorio messicano.
I detenuti che si vogliono uccidere in vita: Mumia Abu Jamal, Leonard Peltier, los Mapuche, Mario González, Juan Carlos Flores.
Il continuo sotterramento di voci che furono vita, messe a tacere dal cadere della terra e dal chiudersi delle sbarre.
E l’ironia maggiore è che, ad ogni palettata di terra che butta
l’assassino di turno, il sistema continua a dire: “non vali niente, non
importi, nessuno ti piange, a nessuno dà rabbia la tua morte, nessuno
segue il tuo passo, nessuno eleva ad esempio la tua vita”. E con
l’ultima palettata sentenzia: “se anche catturassero e castigassero noi
che ti abbiamo ucciso, sempre incontrerò un altro, altra, altri, che di
nuovo ti nasconderanno e ripeteranno la danza macabra che terminò con la
tua morte”. E dice: “La tua piccola giustizia, nana, fabbricata perché i
media ufficiali simulino e ottengano un po’ di calma per frenare il
caos che gli vola addosso, non mi spaventa, non mi danneggia, non mi
castiga”.
Che diciamo a questo cadavere che, in qualsiasi angolo del mondo di
quelli che stanno sotto, lo si sta seppellendo nell’oblio? Che solo il
nostro dolore e la nostra rabbia contano? Che solo il nostro coraggio
importa? Che mentre sussurriamo la nostra storia, non ascoltiamo il suo
grido, il suo urlo disperato?
Ha tanti nomi l’ingiustizia e sono tante le urla che provoca. Però il
nostro dolore e la nostra rabbia non ci impediscono di ascoltare. E i
nostri sussurri non sono solo per lamentare la caduta delle nostre morti
ingiuste. Sono per poter ascoltare in questo modo altri dolori, fare
nostre altre ire e continuare così nel complicato, lungo e tortuoso
cammino a fare di tutto questo un urlo disperato che si trasformi in
lotta di liberazione.
E non dimenticare che, mentre qualcuno sussurra, un altro grida. E solo l’orecchio attento può ascoltare.
Mentre parliamo e ascoltiamo, ora, qualcuno urla di dolore, di
rabbia. E così come si deve apprendere a dirigere lo sguardo, l’ascolto
deve trovare la strada che lo renda fertile. Perché mentre qualcuno
riposa, c’è chi cammina in salita.
Per conseguire questo obiettivo, basta abbassare lo sguardo ed elevare il cuore.
Potete?
Potrete?
La piccola giustizia assomiglia tanto alla vergogna. La piccola
giustizia è quella che assegna impunità; castigando uno, assolve
altri. Quella che noi vogliamo, per la quale lottiamo, non si esaurisce
nel trovare gli assassini del compagno Galeano e assicurarsi che
ricevano il loro castigo (così sarà, che nessuno si illuda).
La ricerca paziente e ostinata trova la verità, non il sollievo della
rassegnazione. La grande giustizia deve riguardare il compagno Galeano
sotterrato. Perché noi non ci domandiamo cosa fare della sua morte, ma
cosa dobbiamo fare con la sua vita.
Scusate se entro nel fangoso terreno dei luoghi comuni, però quel
compagno non meritava di morire, non così. Tutto il suo impegno, il suo
sacrificio quotidiano, puntuale, invisibile per chi non era dei nostri, è
stato per la vita. E se vi posso dire che è stato una creatura
straordinaria e più, e questo è quello che meraviglia, ci sono mille di
questi compagni e compagne come lui nelle comunità indigene zapatiste,
con lo stesso impegno, identico accordo, uguale acutezza e un’unica
meta: la libertà. E facendo conti macabri: se qualcuno merita la morte è
chi non esiste né è esistito, se non nella fugacità dei mezzi di
comunicazione professionali.
Già ci ha detto il nostro compagno capo e portavoce dell’EZLN, il
Subcomandante Insurgente Moisés, che uccidendo Galeano, o qualsiasi
degli zapatisti, quelli che stanno sopra volevano ammazzare l’intero
EZLN. Non come esercito, ma come stupido ribelle che costruisce e crea
vita dove loro, quelli che stanno sopra, vogliono il Páramo delle
industrie minerarie, petrolifere, turistiche, la morte della terra e di
che la abita e lavora. E ha detto che siamo venuti, come Comando
Generale dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, a
dissotterrare Galeano.
Pensiamo che sia necessario che uno di noi muoia perché Galeano possa
vivere. E per far sì che quell’impertinente che è la morte sia
soddisfatta, al suo posto mettiamo un altro nome, perché Galeano viva e
la morte non si porti via una vita, ma solo un nome, lettere svuotate di
tutto il loro significato, senza propria storia, senza vita.
Così abbiamo deciso che oggi Marcos smette di vivere.
Lo porteranno con la mano sotto l’ombra del guerriero e con un po’ di
luce perché non si perda nel cammino, Don Durito andrà con lui, lo
stesso il Vecchio Antonio. Non ne sentiranno la mancanza le bambine e i
bambini che prima si ritrovavano per ascoltare i suoi racconti, beh già
son grandi, già hanno giudizio, già lottano come mai per la libertà, la
democrazia e la giustizia, che sono i compiti di qualsiasi zapatista. Il
gatto-cane, e non un cigno, intonerà ora il canto d’addio.
E alla fine, chi capisce, saprà che non se ne va chi c’è sempre
stato, né muore chi non ha vissuto. E la morte se ne andrà ingannata da
un indigeno con il nome di Galeano nella lotta, e in queste pietre che
hanno posto sulla sua tomba tornerà a camminare e insegnare, a chi
voglia, le basi dello zapatismo, cioè, non vendersi, non ritirarsi, non
arrendersi.
Ah la morte! Come se non fosse evidente che quelli che stanno sopra
li libera da tutte le corresponsabilità, aldilà dell’orazione funebre,
l’omaggio grigio, la statua sterile, il museo che conserva.
A noi? Beh, la morte ci coinvolge per quello che riguarda la vita. E così noi siamo qui, beffando la morte in realtà.
Compagni:
Detto tutto questo, essendo le 02.08 del 25 di maggio del 2014 nel
fronte di guerra sudorientale dell’EZLN, dichiaro che smette di esistere
il conosciuto come Subcomandante Insurgente Marcos, l’autodenominato
“subcomandante di acciaio inossidabile”.
Questo è quanto.
Con la mia voce, già ha smesso di parlare il portavoce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale.
Bene. Saluti e a mai più… o per sempre, chi ha capito saprà che questo già non importa, che non ha mai importato.
Da La Realidad zapatista,
Subcomandante Insurgente Marcos
Messico, 24 di maggio del 2014
P.S.1 – “Game is over”?
P.S.2 – Scaccomatto?
P.S.3 – Touché?
P.S. 4 – Ci si vede, raza, e mandatemi del tabacco.
P.S. 5 – Mmh… e così è questo l’inferno… Quel Piporro, Pedro, José Alfredo! Come? Da maschilisti? Nah, non penso, se io mai…
P.S. 6 – Ma, come si suol dire, senza il costume, posso mica andare in giro nudo?
P.S. 7 – Sentite, c’è troppo buio qui, ho bisogno di un po’ di luce.
(…)
[Si sente una voce]
Viviate buone albe compagni e compagne. Il mio nome è Galeano, Subcomandante Insurgente Galeano.
Altri si chiamano Galeano?
[si sentono voci e urla]
Ah, mi hanno detto che quando sarei nato di nuovo lo avrei fatto in collettivo.
Così sia.